Il giornale Il Tempo si pubblicò dal 1899 al 1912; nacque con indirizzo radicale ed ebbe per direttore Gustavo Chiesi; poi, avvenuto il distacco della grande massa dei socialisti milanesi dal partito ufficiale nel 1903, divenne l’organo dei riformisti e fu diretto da Claudio Treves. Questo articolo si riferisce a quello apparso la vigilia sul Corriere della Sera.
CRUENTA GIORNATA AL BENADIR
IL VILLAGGIO DI MERERÉ INCENDIATO DAI « NOSTRI » – CENTO SOMALI UCCISI
Cotone sanguigno!
Siere pregati, se siete buoni italiani di accendere falò di gioia per la “nostra” vittoria di Mereré. La storia delle piantagioni di cotone sullo Scebeli ha un prologo guerriero, che certamente susciterà la Musa epica italica, dormiente da tanti secoli. Nell’attesa pigliamo per testo narrativo il cablogramma del Corriere della Sera. L’occasione della partenza della guerra è stato che alcune legnaiuole venute al “nostro” accampamento dichiararono di essere bastonate a Mereré, capitale degli Hintera, i quali si erano adunati in comizio di guerra al suono del corno!
Vendetta! Vendetta!
Il 30 agosto una colonna dei “nostri” -1500 uomini, novecentocinquanta fucili, quattro pezzi di artiglieria, una carovana di cammelli- parte alla volta dei “nemici”. Gli avamposti non tardono ad avvistare “forti nuclei di Somali, in atteggiamento ostile (!)”. Si stacce “un gruppo di quindici somali”: una compagnia di eritrei incomincia subito il fuoco accelerato, atterrandoli in pochi istanti. (Viva! Viva!) Un ascaro viene ferito di freccia.
Allora è l’azione grossa, la battaglia di Roncisvalle! Nei vari punti della boscaglia dove le siepi sono meno fitte si vedono “nuclei di Somali” passare velocemente, tentando un movimento avvolgente. Presto! Alcuni colpi di mitraglia liberano rapidamente il terreno. Ma la testa del quadrato italico è esposto alle offese del nemico che ha qualche fucile. Fino a questo punto le “offese” si hanno da ritenere potenziali perché il cablogramma non accenna a nessun atto positivo di offesa.
Il capitano Messeri avanza con tutte le riserve. Supera con le accette una siepe e si ritrova “a contatto con un forte gruppo di Somali che è messo in fuga dalle scariche accelerate”. Qualche “fanatico” isolato, con incredibile audacia (!) cerca gettarsi contro la linea del fuoco, ma è atterrato a pochi metri dalle bocche dei fucili. Messeri si sposta sul fianco sinistro per allargare il campo di vista e di tiro ed ordina l’abbattimento delle siepi. Allora, tranquillati i “nostri” cammellieri, si distaccano due centurie per occupare l’ultima zeriba proteggente in parte il paese dei somali “i qualit pare ammontassero complessivamente a otto o novecento”.
Da Mereré così scoperta escono numerosi armati che si profilano in distanza dalle siepi. E qui si comincia ad accennare a numerosissimi somali invisibili (!!) che pigliano a combattere, scoccando numerose freccie. Una ferisce leggermente al braccio il tenente Casala, un’altra una recluta. Povere freccie, ultima ed unica difesa della povera patria! Ma i cannoni del tenente Locurcio fanno le vendette delle freccie inviando varii proiettili entro Mereré.
Il “combattimento è finito. È l’ora del guai ai vinti! Il maggiore di Giorgio ordina che sia dato il fuoco a Mereré!
“Ma -narra lo storiografo delle gesta gloriosa attraverso il cavo- essendosi abbruciate solo poche capanne, e tardando l’incendio a propagarsi malgrado il monsone, poiché urgeva raggiungere l’obbiettivo principale, la ricognizione sur Afgoi, il seguito dell’operazione (!!) venne rinviata al giorno successivo”.
Questo non dice il cablonista e lo diciamo noi: Un somalo in fuga, parodiando il motto del poeta russo cui il boia non riusciva ad impiccare, osservò: Questa gente non sa neppure incendiare!
Ma il somalo aveva torto!
“Il giorno 31 -seguita l’annualista- raggiungemmo Mereré alle ore nove, in formazione di combattimento. Non si vedeva alcuno, l’incendio della vigilia era spento e la maggior parte delle abitazioni ancora in piedi. I cannoni inviarono nel paese qualche granata, come avvertimento ai ritardatari. Ve ne erano infatti e subito si allontanarono. Indi centocinquanta ascari, arabi e eritrei, vennero inviati con torce a vento a compiere l’incendio sistematico del paese. In breve ora si sollevò un’immensa colonna di fumo, spinta ad occidente del monsone. I tetti dei tuculs, investiti dalle fiamme, precipitarono ad suolo iniseme alla parete circolare, scoprendo il palo centrale e lo scheletro delle abitazioni. Il bestiame che i fuggiaschi non si erano portati dietro fuggiva atterrito dalla fornace ardente, e si spargeva per la campagna; lo spettacolo era terribile.
Intanto, dall’altro lato del fiume si udiva il continuo crepitio delle fucilate, ultimo saluto degli ascari ai fuggenti oltre lo Scebeli o a quelli che tentavano l’estrema, disperata resistenza.
A mezzogiorno tutto era finito.”
Era tempo! Ed ora si levi il peana sopra la Ilio Somala, rasa e combusta da questi elleni di Italia. Piovano gli inni, le croci e gli allori sopra gli espugnatori! Un giorno di gloria è questo per la patria! Chi ne dubita? “Incendiare il villaggio è stata una dolorosa necessità politica”, spiega solennemente il nunzio della santa e eroica impresa. Questa è la guerra!
La guerra? E chiamiamo pur così questa caccia, senza pericoli, con fucili e artiglierie, questa strage tranquilla di miserabili selvaggi terrorizzati, fuggenti con le loro freccie innocue. Chiamiamo pur così l’incendio in due riprese dato a un mucchio di catapecchie, ospitanti donne e bambini, per vendicare il “sospetto” di una possibile influenza degli Hintera all’ormai preistorico fatto di Lafole!…
Tanto peggio allora per la guerra! E motivo di più perché noi protestiamo contro la guerra indetta dal signor Tittoni per i begli occhi di alcuni avventurieri del cotone.
Ahimè! Quel cotone! È a dubitarsi se alcuno si vestirà mai dei panni tagliati in esso. Non sotto il sangue e le macerie fumanti il pacifico cotone suole allignare!
Attenti! che le giuste, inevitabili rappresaglie non soffochino i semi prima che si schiudano! E coi semi sterminino ben altro!
La versione ufficiale della spedizione
La Stefani comunica in via ufficiale da Roma, 10:
Il ministro degli Affari Esteri ha ricevuto, per la via di Lamu, altri telegrammi dal Governatore della Somalia italiana, dei quali l’ultimo, in data Mogadiscio 6 settembre dice:
“Dopo l’occupazione di Berire, sull’Uebi-Scebeli, avvenuta il 24 agosto u. s. il maggiore De Giorgio fece il giorno 30 una ricognizione su Afgoi, durante la quale, attaccato da stuoli nemici li respinse con forti perdite. Della nostra colonna furono feriti piuttosto gravemente due ascari e leggermente il tenente Casale. Queste difficoltà verso Afgoi erano state prevedute dal Governatore Carletti. Il 31 agosto scorso il maggiore Di Giorgio tornò a Berire per prendere la carovana e provvedere, secondo il piano prestabilito, alla definitiva occupazione di Afgoi, il che avvenne il giorno 2 settembre, dopo dieci ore di marcia, resa penosa dalla pioggia, essendo ottimi però lo stato e la salute delle truppe. L’accoglienza della popolazione fu festosa e cordiale; fu innalzata la bandiera italiana fra le salve dell’artiglieria e le “fantasie” degli indigeni. Il 3 settembre il sultano di Ghelebi, con grande seguito di armati, fece visita in Afgoi al comandante delle nostre truppe, che glie la rese il giorno seguente a Sigale, dimore del sultano. L’accoglienza fu cordiale da parte di lui e della popolazione. La colonna operante, dopo di aver lasciato a presidiare Barire e Afgoi la sesta e la prima compagnia rispettivamente, rientrò il 6 settembre a Mogadiscio in eccellenti condizioni di salute e di spirito. Il Governatore della Somalia italiana conchiude le sue informazioni acchiarando che l’operazione sul fiume può considerarsi essenzialmente terminata.”
Che dice il vero?
Ognuno ammirerà la meravigliosa concordanza che è tra la versione del governatore del Benadir, comm. Carletti, sulle operazioni belliche avvenute sull’Uebi Scebeli e il racconto comunicato dai corrispondenti dei giornali e specialmente dal Bonacci, sul Corriere Della Sera.
Secondo il Carletti la colonna Di Giorgio, facendo una ricognizione su Afgoi, fu attacata da stuoli nemici e fu respinta con forti perdite. Dell’incendio dato a Mererè, capitale degli Hintera, neppure una parola. Delle ragioni della spedizione meno ancora.
Secondo la versione del corrispondente la colonna Di Giorgio non fu attaccata, ma fu essa ad attaccare. Ragione o pretesto prossimo le boscaiuole bastonate; ragione o pretesto remoto “la necessità politica” di vendicare la supposta partecipazione degli Hintera all’eccidio di Lafolè. Finalità della spedizione, la distruzione di Mererè, roccaforte (di paglia) della opposizione dei Bimali a noi.
Tra le due versioni, quale è la vera? quale è la falsa? Inganna il Governo? Inganna il giornalista?
Per noi non c’è dubbio. È il signor Tittoni che inganna. Il giornalista può aver colorito in eroico la spedizione cui ha partecipato, non può averla inventata; può errare di dettagli non sulla figurazione generale dell’avvenimento.
E allora perché inganna il signor Tittoni? Evidentemente per quei motivi che sono soliti del beato regime paterno: non preoccupare I “sudditti”; garantire loro che “tutto è finito”; sopprimere le impressioni e I giudizi sopra l’efferatezza della distruzione di un villaggio compiuta a freddo in due volte, senza una necessità di guerra, per pura rappresaglia di supposte antiche offese.
Tutta, tutta condannabile non ci pare del resto neppure la “prudenza” del signor Tittoni. C’è forse in essa anche la preoccupazione dei giudizi che il mondo civile potrebbe dare su questi “metodi coloniali” che se non sono nuovissimi neppure da parte degli italiani (si ricordi Livraghi!) non ci sono per altro ancora abituali!
Ma da che il Congo ci è venuto in casa!… bisogna rassegnarsi a prendere la reticente ipocrisia del comunicato ufficiale come… un omaggio alla virtù e quindi come un tacito giudizio sugli eccessi crudeli, ingiustificati della colonna Di Giorgio!
Non sappiamo se interpretiamo bene…
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Occupazione pacifica…
Ci telefonano da Roma, 10, sera:
La Tribuna commentando le notizie del Benadir, dice che il programma esposto alla Camera dal Governo nel febbraio ultimo, si avvia al suo complimento assai prima di quello che fosse lecito provvedere.
Il Giornale d’Italia propende a credere che le operazioni militairi volgono ormai alla fine.
Invece la Vita ritiene che il paese non sia punto pacificato dal momento che gli indigeni non si lasciarano intimorire dalla grossa colonna di cui dispone il maggiore Di Giorgio, e teme che le previsioni di occupazione pacifica possono venire duramente smentite.
Il Tempo, Giornale politico quotidiano (Milano, Venerdì 11 Settembre 1908)