A 38 anni, il sociologo Andrea Segre è già un regista esperto. I suoi documentari sono entrati nel circuito internazionale e in Francia, Io sono Li è uscito in sala a giugno 2012.
La prima neve, film presentato a Venezia nel 2013, è stato selezionato al festival Terra di cinema di Tremblay-en-France.
Olivier Favier: Lei inizia il suo percorso come documentarista nel 1998, all’età di 22 anni, realizzando Lo sterminio dei popoli zingari. film su una comunità che è oggì al centro dei discorsi razzisti in tutta Europa. Nello stesso periodo si laurea in sociologia della communicazione presso l’Università di Bologna. Un duplice percorso coerente che richiede però una grande energia. Come questi due aspetti si sono nutriti e influenzati a vicenda?
Andrea Segre: La mia professoressa di Sociologia della Comunicazione un giorno mi ha detto: « Se nella vita trovi un modo di raccontare il mondo come faceva Balzac, allora puoi smettere di fare il sociologo. Altrimenti continua a farlo. » Così io ho cercato d sviluppare la mia narrazione (non certo ai livelli di Balzac) sapendo che se non la trovavo avrei fatto il sociologo. Per fortuna l’ho trovata. Ma anche per fortuna che ho studiato sociologia, e non cinema. Il mondo del cinema è probabilmente peggio anche del mondo accademico.
Olivier Favier: Una diecina d’anni dopo, due documentari ottengono un grande successo: Come un uomo sulla terra (2008), che racconta il lungo viaggio dei migranti dal Corno d’Africa fino all’Italia, e Il sangue verde (2010) che ricostruisce,quasi a caldo, gli eventi e le violenze di Rosarno (Reggio Calabria) del gennaio 2010. La strada seguita è chiara. Il Suo lavoro copre una parte importante del mondo, dall’Africa al sud dell’Europa, si può interessare a un fatto di cronaca o ricostruire la memoria di un popolo, puo’ esplorare il confronto tra passato e presente o le tradizioni musicali, ma si tratta sempre di ripensare la migrazione e la diversità culturale. Come definirebbe il filo rosso della Sua ricerca e del Suo pensiero?
Andrea Segre: Il punto di partenza di tutto è stato il profondo desiderio umano di relativizzare il mio punto di vista. Nascere in una provincia dell’Europa ricca e comoda è una condanna che può consegnarti una vita monocorde e immobile. Evitare questo destino è stato per me necessario. Poi ho trasformato tutto ciò in impegno pubblico, in comunicazione per raccontare al mio mondo altri punti di vista, capaci di mettere in discussione le convizioni e le protezioni che la maggioranza di noi si è data per non vivere le sfide complesse della società globale e per proteggere i propri comodi privilegi. In questo percorso i laboratori di video-partecipativo e il cinema documentario sono state le scuole di formazione del mio linguaggio.
Olivier Favier: Il Suo penultimo documentario, realizzato con Stefano Liberti, è anch’esso legato all’attualità, racconta la storia dei migranti dell’Africa subsahariana, rinviati dalla marina militare italiana in una Libia dove nel 2001 scoppia una guerra civile con interventi internazionali. Mi ha colpito in questo lavoro il rapporto che lei stabilisce tra il paesaggio del tutto provvisorio dei campi di rifugiati e la vita sospesa delle persone che ci vivono. Questo interesse per il paesaggio si ritrova nei suoi due primi film di fiction, Io sono Li e La prima neve. Come si ricostruisce un’identità attraverso il legame che uno crea con la natura, con l’ambiente?
Andrea Segre: Essendo il mio cinema nato da un desiderio/bisogno di scappare dal mio territorio natale, si è sviluppato attraverso la frequentazione di altri territori. L’esperienza fisica sta alla base del mio cinema. Poi, come spesso succede, ho deciso di ritornare « quasi » a casa, girando Io sono Li nel paese natale di mia madre, anche se la laguna di Chioggia è uno spazio sociale radicalmente diverso rispetto alla città di Padova e anche se ne ho affidato il racconto ad uno sguardo radicalmente diverso da quello di mia madre. Per fare un film io devo vivere un rapporto fisico con un territorio, sentirne il caldo, il freddo, il vento, il silenzio, il rumore, riconoscere l’impatto emotivo della sua esistenza sulla mia. Poi inizio a girare.
Olivier Favier: Con Io sono Li, Lei è tornato nella Sua regione d’origine, il Veneto. La prima neve esplora una regione vicina, il Trentino, anche lui segnato dalla diversità culturale. Il Trentino-Alto Adige è una delle due regioni italiane, insieme alla Valle d’Aosta, ad avere un doppio nome, in questo caso, italiano e tedesco: si chiama anche Süd-Tirol. In La prima neve, Dani, il protagonista, è togolese. Parla il francese e sogna di andare a Parigi. Nella regione in cui si è stabilito, parlano italiano e un dialetto tedesco. Una situazione paradossale. In una regione apparentamente remota del nord dell’Italia, la Valle dei Mocheni, si incrociano così almeno quattro culture. Che cosa voleva far capire attraverso questa scelta?
Andrea Segre: Che i luoghi di minoranza e di confine sono quelli più capaci di restituire significati densi anche per le maggioranze e i centri.
Olivier Favier: Un altro tema di La prima neve è quello della resilienza. Dani ha perso la moglie al largo di Lampedusa. Si ritrova con una figlia che fa fatica ad allevare. Più si va avanti nel film, più si capisce che il film non riguarda solo un’esperienza specifica -la migrazione- ma un’esperienza universale: il lutto. Il lutto assume in questo film lo stesso ruolo della maternità in Io sono Li: la protagonista, cameriere o operaia a Chioggia, viveva nell’attesa di far venire il suo figlio, affidato al nonno in Cina. È un privilegio della fiction quello di trovare l’universalità nell’esperienza dell’altro?
Andrea Segre: Ho lavorato per anni nel cercare di far diventare i personaggi dei miei documentari individui e non categorie (John Dag, Fikirte, Neda, Sara, Stefano, Lorenzo e non africani, immigrati, rifugiati, donne, borgatare, veneti), nella convinzione che ciò permettesse non solo a loro di essere più liberi e rispettati ma anche a me di fare cinema e non reportage. Quando ho avuto la sensazione di esserci in parte riuscito (la sperimentazione continua anche nel documentario) allora mi sono detto che potevo tentare di creare con la scrittura (contaminata dalla realtà) personaggi cinematografici già di partenza individui capaci di andare oltre le categorie e quindi diventare universali. E’ come se (e qui la mia preparazione sociologica influisce) io fossi partito dal destrutturare categorie generalizzanti troppo soffocanti per cercare di arrivare a personaggi universali attraverso la scoperta dell’individuo. Se mi fossi fermato alle categorie avrei fatto il sociologo, se mi fossi fermato all’individuo avrei fatto cinema fine a sè stesso, in questo modo ho la speranza di riusccire a fare cinema sociale, che però evitiamo di chiamare così (è una definizione che il mondo del cinema tende a usare per ghettizzare un « certo cinema impegnato »), chiamiamolo « cinema nel reale ».
Grazie a Veronica Collalti e Irene Pancaldi della rilettura.
Approfondimenti :
- Il blog diAndrea Segre.
- Il sito di Zalab, con accesso ai film di Andrea Segre.
- Come un uomo sulla terra, film intero.
- Il sito di Marco Lovisatti.
- Il sito del festival Terra di cinema (21 marzo – 8 aprile 2014).
- Gli articoli di questo sito sul « Cinema italiano » (in francese).