Questa intervista è stata realizzata alla libreria-caffè Marcovaldo di Parigi, il 27 maggio 2013.
Alberto Prunetti è nato e cresciuto a Piombino in Maremma all’inizio degli anni Settanta. Dal 2005 fa parte della redazione della rivista Carmilla on line, diretta da Valerio Evangelisti, che ha curato la bellissima prefazione del libro di cui parleremo qui.
È traduttore dallo spagnolo e dall’inglese, ha vissuto a lungo in Argentina ed è anche fotografo. Lo si potrebbe definire perlomeno come un’intellettuale organico ma anche un po’ come un erede dei vecchi operai della Maremma, un intellettuale «tuttofare» -ci vedo il risorgere, nella nostra generazione, di una specie di mente enciclopedica un po’ settecentesca, che ci spinge fino ad abbracciare il mondo intero, ed in modi diversi. Almeno di questo ci possiamo inorgoglire. Il suo primo libro risale al 2003. Si chiama Potassa edè stato pubblicato da una casa editrice mitica, Stampa alternativa. Raccontava una storia di ribelli dimenticati in Maremma. Il quarto libro, Amianto, pubblicato presso Agienza X, di cui parleremo stasera, l’autore stesso lo autodefinisce così, verso la fine della storia che racconta: «Questa è la sua storia, la storia operaia di un tipo qualsiasi, una storia come tante, di quelli che sono cresciuti nel dopoguerra, hanno fatto un pezzo del boom economico italiano sulla loro pelle, hanno vissuto la crisi petrolifera del ’73 sulle proprie tasche e sono morti all’inizio del nuovo secolo, ammalati dopo avere smesso di lavorare.» Quest’uomo si chiama Renato, ed è il padre dell’autore.
Olivier Favier: «Quando da piccolo la maestra mi chiedeva qual era il lavoro di mio padre, io imparai presto a dire «tubista», anche se non capivo cosa volesse dire». Mi ha colpito questa frase, scritta nelle prime pagine del libro, quando poco a poco accetti di raccontare la tua storia in comune con un uomo che presenti così: «si chiamava come me ed era nato nel giorno in cui sono nato, eppure non sono io». Tuo padre è morto nel luglio 2004. Nove anni dopo, ti fai di nuovo scrittore per raccontare la sua vita e ci confessi subito: «Questa storia comincio a raccontarla controvoglia.» Una reticenza, e anche un pudore, che immediatamente però dà un colore particolare al libro, un mistero, una profondità. Ti seguiamo subito in questo lavoro di inchiesta che poco a poco diviene la nostra. Come ti è venuta questa – chiamiamola così- necessità?
Olivier Favier: Mentre preparavo il nostro incontro, mi sono documentato un po’ sull’amianto, l’uso del quale in Francia, come saprai, è stato proibito solo nel 1997, quindi con un ritardo ancora maggiore rispetto al 1992 dell »Italia, che però non ne proibisce l’uso, ma solo la vendita. In Italia c’è stato lo scandalo Eternit, e la sentenza storica del febbraio 2012: sono stati condamnati in primo grado due dirigenti, tra cui l’ex presidente del consiglio di ammistrazzione, a 16 anni di reclusione per « disastro ambientale doloso permanente » e per « omissione volontaria di cautele antinfortunistiche ». In Francia, lo scandalo ha toccato i vertici del potere politico. Queste cose le sappiamo tutti. Ma per quanto mi riguarda la vera sorpresa è stata di scoprire che i primi rapporti degli ispettori del lavoro sulla nocività dell’amianto, sia in Inghilterra che in Francia, risalgono alla fine dell’Ottocento. Nel mondo antico, l’amianto era già considerato una sostanza eccezionale perché resisteva al fuoco -in certe famiglie richissime dell’Impero romano, si lavavano le tovaglie di amianto buttandole nel fuoco- ma già si sospetteva che ciò potesse essere dannoso per il polmoni. Leggendo questo, mi sono fatto delle domande molto semplici. Le risposte magari lo saranno di meno. I rapporti ufficiali a livello internazionale si sono moltiplicati dagli anni 60 in poi. Mi chiedo infatti quando e come tuo padre si sia reso conto dei rischi che stava correndo. Se ne parlava nelle fabbriche in cui ha lavorato? Sembra, o forse mi sbaglio che tali rischi siano stati sottovalutati anche da parte dei sindacati, come se la gravità del pericolo fosse stata scoperta quando era già troppo tardi.
Olivier Favier: Tuo padre è nato nel ’45, tu nel ’73. Ci racconti di un mondo in cui, ad esempio, «mangiare era un’ideologia» : siamo tanti a condividere, mi pare, un ricordo come questo. Parli degli anni Ottanta come «anni di merda» e aggiungi «per come me li ricordo io». «I settanta invece (erano) anni felici, in cui il lavoro non (mancava) et la vita (seguiva) i propri rivoli. Anni di alti salari e alta conflittualità, anni bellissimi, che solo chi non ha mai lavorato in fabbrica poteva definire «plumbei».» Certo che il mondo secondo Craxi era roseo solo sui manifesti del partito, ma mi pare che in questo paragone c’entri anche un po’ la classica opposizione tra infanzia e adolescenza, il ricordo idealizzato e la scoperta che il mondo può essere anche bruttissimo. Prima, tu sei conscio che qualcosa non va, però è tua madre a ricordartelo. È lei che dice: «Ti ricordi quando siamo andati ad Aquileia? Credo fosse il 1977. E una domenica andammo a vedere una chiesa e tu, di fronte a un Cristo in croce, dicesti: «Babbo!»» Un ricordo preciso, tuo stavolta: sei ancora un bambino, ma siamo sull’orlo degli anni Ottanta. Un giorno, un collega di tuo padre rimane ucciso in fabbrica. Ti impediscono di tornare in casa sua, dove c’è Bruno, il figlio, tuo amico. Dici: «Aveva sette anni e per me quel giorno non era morto suo padre. In fabbrica era morto lui.» Infatti, sembra, come succede spesso nelle famiglie, cha la vita del padre si sdoppi in quella del figlio. Scrivere questo libro non è stato anche un modo di sfidare il destino?
Olivier Favier: Poco a poco, sempre con pudore, i ricordi si fanno più precisi. Racconti degli operai che «dovevano scaldarsi con il fuoco dentro i bidoni, come i clochard.» Che tuo padre «tornava a casa il venerdì con le caviglie, che gli rimanevano talvolta fuori dalla tuta, bruciacchiate dalle scintille degli elettrodi della saldatrice fusi». Verso la fine del libro, ritorna questo riferimento all’oggetto, a quello che resta del padre che non c’è più. Scrivi: «In genere infatti la tuta sopravvive al suo portatore, come è successo anche a Renato.» Con questi dettagli, ci troviamo di fronte a due generazioni diverse, la tua e la sua. Ce n’è anche una terza, « un tipo umano in via d’estinzione, l’uomo-tuttofare.» Aggiungi: «Dico la verità, mio padre non era di questa generazione.» Questa domanda ti risulterà forse paradossale insieme a quella che ti ho fatto prima. Ma mi sembra anche che questo libro sia il tentativo di collegarti ad un mondo che poco a poco ti appare meno familiare.
Grazie ad Alessandra Minio per la prezioza rilettura.